Io sono l’acqua - Il cinema di Kim Ki-Duk
«Io sono l’acqua… semplicemente fluisco. Non ci sono sistemi o ideologie».
by Valentina Pasquale
«Io sono l’acqua… semplicemente fluisco. Non ci sono sistemi o ideologie». Kim Ki-Duk ha utilizzato queste parole per definire il proprio modo di fare cinema, ed in effetti il percorso artistico del cineasta coreano, scomparso a Riga per complicazioni legate al COVID-19, è stato piuttosto fluido ed inusuale, atipico. Autore di gioielli che hanno marcato la storia del cinema sudcoreano e mondiale, è entrato nel mondo della Settima Arte privo di una regolare formazione accademica e senza avere la benché minima familiarità con un set cinematografico, a differenza di molti suoi colleghi. La difficile situazione economica della sua famiglia lo costringe, adolescente, a lavorare come operaio in fabbrica e poi ad arruolarsi in marina, dove resta per cinque anni, periodo nel quale è colto da una crisi religiosa. Inizia ad avvicinarsi al cinema intorno agli anni ´90, quando si trasferisce a Parigi, si appassiona all’arte e per mantenersi vende i suoi quadri in strada. Tutte queste esperienze di vita confluiscono in varia forma nel suo modo di fare cinema, istintivo, violento e poetico, esteticamente raffinato e dominato da un costante sperimentalismo che eserciterà una grande influenza sul talentuoso Park Chan-Wook.
L’esigenza di raccontare la vita, il dolore, l’emarginazione sociale di molti dei suoi outsiders, il male e l’iniquità, si traduce in un linguaggio filmico carico, fortemente espressivo e privo di filtri: la violenza e la crudezza dell’immagine devono penetrare lo spettatore, scuoterlo, indurlo ad abbandonare paradigmi morali convenzionali per poter cogliere il dramma umano anche nel più spietato dei personaggi. Questa estetica espressionista e fortemente connotata trova un controcanto in una narrazione che non cede mai all’iperrealismo, ma vira piuttosto verso il surrealismo, la magia, l’illusionismo, quel genere che Kim stesso ha definito realismo astratto: i dialoghi si fanno scarni, quando non assenti del tutto, i protagonisti comunicano attraverso i loro corpi e la musica prende la parola. Emblematici, in questo senso, sono L’Isola, Ferro 3-La casa vuota e Bad Guy; in quest’ultimo, in modo particolare, è difficile distinguere ciò che accade realmente da ciò che è pura fantasia immaginativa dei protagonisti.
Alla varia umanità fatta di parassiti e avvoltoi di Kim Ki-Duk deve moltissimo, se non tutto, il pluripremiato Parasite di Bong Joon-ho. Ne sono esempio il senzatetto che vive sotto un ponte ed attende che la gente si suicidi per depredarla dei suoi averi in Coccodrillo e Tae-suk, l’indimenticabile homeless di Ferro 3, che si introduce nelle case degli altri e le abita, vive e cura come se gli appartenessero.
Chi altri avrebbe potuto concepire un capolavoro come Pietà dove una storia di delitto, redenzione e castigo si interseca ad un atto d’amore verso l’arte, attraverso una ricerca estetica perfetta mai fine a se stessa, che non cede e nulla concede alle lusinghe del manierismo?
Ci mancherà Kim Ki-Duk. E ci mancherà perché nessun altro come lui, quanto lui, attraverso la poesia e la bellezza ha avuto la capacità di penetrare, narrandole, le ferite umane e di mostrare come l’essere umano riesca a rimanere aggrappato alla propria umanità anche (e soprattutto) nelle situazioni più degradate e disperate.
E allora Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora, sempre Kim Ki-Duk.
Il nostro consiglio per degustare al meglio il grande cinema di Kim Ki-Duk è di aprire una bottiglia di Angelica Zapata un 100% Malbec della zona Medoza in Argentina.
Valentina Pasquale
Valentina Pasquale
Nerd, filologa, professoressa di italiano e latino.
Molisana di nascita e limeña d’adozione.
Legge, beve buon vino, soprattutto perde tempo.
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