La pasta è antifascista

by Valeria Mulas

Il 25 luglio 2024 molti comuni italiani si ritrovano a celebrare in piazza la pastasciutta antifascista. Lungi dall’essere una festività pastafariana, in questo caso, il nostro amato simbolo gastronomico, è anche la voce di un’Italia libera e partigiana, la cui storia ci insegna quanto il cibo da noi non sia mai una questione neutrale.

Pasta e fascismo: un gastronazionalismo a fasi alterne

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Se c’è un elemento della cucina nazionale che mette tutti d’accordo è l’amore degli italiani per la pasta, almeno se non entriamo nella diatriba dei condimenti, sulle cui ricette volano coltelli. La pastasciutta, considerata dal mondo intero come un riconoscibile e indiscutibile elemento dell’immagine stessa dell’Italia e dai più estremi e valorosi difensori delle tradizioni dell’italico stivale come un bene patriottico, al pari del crocifisso, della mamma e dei confini nazionali, degno delle più alte crociate, non ha avuto sempre una vita facile e libera.

Se oggi molti si sbracciano per la difesa della pasta come valore nazional-popolare, con un accanimento che sfocia spesso nel gastronazionalismo, c’è stato un tempo in cui per la pasta si moriva uccisi ed è proprio quel tempo che il 25 luglio di ogni anno in molti commemorano, per non dimenticare da dove veniamo e quale sapore ha la libertà.

L’arte del cucinare e del mangiare insieme è talmente radicata in Italia, che non è facile trovare un politico o un governo che non abbia in qualche modo preso la parola contro o a favore di una o più usanze gastronomiche, che non abbia cercato di legiferare su quel cibo o su quel vino per innalzarne lo status, proteggerne la tradizione (spesso inventata) o per limitarne o abolirne gli usi. In quest’ultimo caso rientra la pastasciutta che divenne, suo malgrado, banco di prova delle restrizioni delle libertà da parte del fascismo anche in materia di cibo.

Nel 1913 e nel 1920 i primi libri di cucina futurista iniziano a dettare le regole estetiche dei piatti, per poi sfociare nel 1930 in un Manifesto della Cucina Futurista, il cui primo punto è un inno «Contro la pastasciutta» dove si crede anzitutto necessaria «l’abolizione della pasta asciutta assurda religione gastronomica italiana» poiché «nel mangiarla essi (gli italiani, ndr) sviluppano il tipico scetticismo ironico e sentimentale che tronca spesso il loro entusiasmo». Va precisato che gli italiani diffondono l’usanza di mangiare la pasta secca, prodotta da grano duro, di ritorno dall’America, dove molti dal sud erano espatriati in cerca di fortuna e cibo. Fu quindi considerata una moda di importazione americana, il cui conseguente aumento della richiesta di frumento per la sua produzione si scontrava con l’idea di fare dell’Italia un paese autosufficiente nelle risorse e in particolare dal punto di vista cerealicolo.

Nel 1925 il fascismo lancia la “Battaglia del grano” al fine di annullare la dipendenza dalle importazioni dall’estero: una serie di misure volte ad aumentare la redditività delle coltivazioni di grano, tramite selezione delle sementi più redditizie, dei concimi e dei fertilizzanti, della sostituzione delle coltivazioni ritenute minori (farro, lenticchie ecc.), dell’imposizione di dazi sulle importazioni, della campagna di bonifica di molte zone d’Italia e dello sviluppo del riso come coltivazione alternativa al grano. In questo contesto il manifesto futurista non è altro che un amplificatore culturale delle politiche di regime, o almeno un tentativo, perché nella realtà dei fatti la pasta secca diffusasi prima in Sicilia, per mano degli arabi, poi lentamente nel napoletano – dove si sviluppa principalmente come cibo di strada – diventa facilmente la regina della tavola.

Dobbiamo attendere la fine della prima guerra mondiale per vedere entrare la pasta secca nelle abitudini alimentari casalinghe e, come spesso accade per il nostro sviluppo gastronomico, galeotta fu l’America. Fu, infatti, nel nuovo mondo che gli italiani di diverse regioni (si stima che circa 15 milioni lasciarono l’Italia tra il 1876 e il 1915) si incontrarono e si scambiarono usi e costumi, costruendo quel senso di italianità gastronomica che in patria era ancora lontano dall’essere reale, considerando le divisioni regionali e i confini di povertà invalicabili. Ma una volta fatta conoscere al popolo, facile da preparare, sostanziosa e a poco prezzo, la pasta non smise di conquistare gli stomaci.

Pastasciutta partigiana

Il periodo fascista fu, quindi, anche una negazione del gusto, a favore di razioni frugali e veloci e l’entrata in guerra dell’Italia decretò un ulteriore impoverimento della popolazione. Alla povertà già diffusa (sono gli anni come abbiamo visto dell’autarchia, ma anche della guerra in Etiopia e della grande crisi del 1929), si sommò il razionamento, attraverso il tesseramento annonario che assegnava alle famiglie quantità precise e insufficienti di cibi da consumare nell’arco della settimana. La rabbia popolare avanzava man mano che la retorica delle politiche fasciste mostrava il suo più cupo volto e nel 1943, precisamente nella notte tra il 24 e il 25 luglio, il Gran Consiglio del Fascismo votò la sfiducia a Benito Mussolini, cui seguirono la sua destituzione, l’arresto e la nomina del generale Pietro Badoglio a capo del governo. Il risveglio dell’Italia fu segnato da queste notizie più o meno edulcorate (di Mussolini si disse che diede le dimissioni, per esempio) e dalla conferma che la guerra proseguiva. Il popolo rispose per lo più distruggendo i busti del duce, ma qualcuno pensò ad una grande festa banchetto. Parliamo della famiglia contadina dei Cervi che optò a Campegine, nel Reggiano, per una memorabile iniziativa a base di pastasciutta. La famiglia Cervi e, soprattutto, i sette figli maschi erano già noti in zona per azioni di boicottaggio verso il fascismo e di aiuto alla popolazione. All’annuncio della caduta di Mussolini i fratelli Cervi decisero quindi di organizzare un grande banchetto e distribuire a tutto il paese pastasciutta: papà Alcide Cervi acquistò a credito parmigiano e burro e si iniziò ad impastare con farina e acqua la più memorabile delle paste. L’uso della pasta con il formaggio resisteva ancora nella cultura popolare fin dal Medioevo e d’altronde l’arrivo del pomodoro dalle Americhe fece fatica ad entrare nell’uso domestico e bisognerà attendere la sua versione in salsa alla spagnola per vederlo comparire nei ricettari italiani tra il 1600 e il 1700 come accompagnamento prima della carne e solo in un secondo momento per la pasta, ma siamo già nel 1800. Non meraviglia quindi che ancora nel 1943 si scelse della pasta con il formaggio e senza pomodoro per festeggiare la caduta di Benito Mussolini e l’illusione che con lui anche il fascismo e la guerra fossero terminati. Il parmigiano o il pecorino devono probabilmente il proprio successo allo sposalizio con la pasta in un binomio di equilibri tra dolce e sapido che permarrà nella cultura gastronomica con la semplice aggiunta della salsa di pomodoro, in un’inversione della nostra idea di pastasciutta in cui il formaggio è un elemento di sapidità che si può anche omettere.

Un amaro finale

Gelindo, Antenore, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore, insieme al papà Alcide, che nel frattempo hanno aderito alla Resistenza, furono incarcerati solo qualche mese dopo questo evento, il 25 novembre 1943. Con la casa in buona parte data alle fiamme dai fascisti, mamma Genoeffa Cervi, con le nuore e i nipoti, cercò di ricostruire una vita in attesa della liberazione degli uomini. Solo Alcide, però, tornò a casa, perché i sette fratelli furono fucilati a Reggio Emilia. Genoeffa morì di dolore e consunzione circa un anno dopo. Alcide venuto a sapere della morte dei suoi ragazzi solo tornato a casa, si dedicò ai nipoti e al lavoro in campo, prima, e subito dopo al racconto della storia dei sette fratelli, perché per dirla con le sue parole: «dopo un raccolto, ne viene un altro, andiamo avanti

Oggi la loro casa a Gattatico è diventata un museo alla Resistenza e narra in modo toccante e preciso la vita di questa famiglia, in cui lo studio, la formazione e l’azione non hanno mai smesso di essere un tutt’uno. All’interno del museo tra i libri di agronomia e quelli di storia, ricordo anche della biblioteca popolare da loro istituita nel 1930, svetta un mappamondo: è il simbolo dello sguardo di questi uomini, tra i 22 e i 42 anni, che rifiutarono la guerra, lavorarono per la pace e pagarono con la vita la loro idea libera di mondo, mangiando pastasciutta

Vale la pena di fare un viaggio in queste terre per assaporare il gusto dolce amaro di questa storia, conoscere meglio i sette fratelli Cervi e il loro instancabile papà, che non smise mai di narrare per tutta la sua vita il sacrificio, la forza e la cultura di quel grano resistente. 

Il libro “I miei sette figli” di Alcide Cervi è un buon accompagnamento a questo viaggio nella memoria, che sicuramente vi darà l’opportunità di assaggiare anche la gastronomia locale e di bere Lambrusco di Sorbara e Fortara che erano i vini conosciuti all’epoca, come racconta lo stesso Alcide. 

Il 25 luglio ovviamente è festa al museo Cervi, così come lo è il 25 aprile.

Vuoi scoprire un’altra storia di gusto? Leggi il nostro articolo sullo Storico Ribelle oppure Siamo Ravioli

Valeria-Redazione Vinity Fair-Chi Siamo
Valeria Mulas

Sommelier e degustatrice AIS. Assaggiatrice ONAF.

Comunicatrice empatica.

Appassionata di vino, cibo, arte e bellezza.

A tratti pittrice, scrittrice di troppe lettere.